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Vista dipinta su un cavalletto, la Bovisa è un reticolo di vie e piazze e alberi che formano un grande ciuffo sulle ventitré a Milano; cresciuto ribelle dai tempi della Gallia Cisalpina, misura quattordici stadi per otto. Girandola di vena in vena, di giorno dentro questa testona di balena si contano trentamila anime, una su cinque è di uno scienziato o un designer o un uomo d'affari, una su cinque di un ingegnere o un architetto o un aspirante tale. Di notte vi si vedono riposare ventimila corpi, uno su cinque è straniero, uno su cinquanta è senza tetto, gli altri sono impiegati e artigiani, qualche giovane professionista che vi ha trovato una casa a buon prezzo, tante famiglie di operai pensionati dalle fabbriche di quello che fu uno dei maggiori distretti produttivi mondiali e ora le ha tutte chiuse fuorché tre, piccine. È una città nella città che disegna da sé la lunga parabola dell'ascesa, caduta, reinvenzione dei quartieri urbani industriali europei e nordamericani.